Se c’è un piatto che a Roma non ha bisogno di presentazioni, è la coda alla vaccinara. Robusta, lenta, generosa. È il simbolo di quella cucina popolare che trasforma gli “scarti” in poesia. Non è solo un secondo piatto: è la voce dei rioni, il sugo che si attacca al cucchiaio, la carne che si stacca dall’osso. È tradizione, recupero, pazienza. È l’anima del quinto quarto, quella cucina povera che povera non è mai stata, perché di gusto e ingegno ne aveva da vendere.
Le origini popolari: dal mattatoio alla tavola
Il nome dice già tutto: “vaccinara” viene da vaccinari, i macellai che lavoravano nei rioni del centro, soprattutto a Regola e poi, con lo spostamento del mattatoio, a Testaccio.
Quello che oggi chiameremmo “scarto” – la coda, le interiora, le parti meno nobili – era il loro pranzo quotidiano. E da lì, con un po’ di fantasia e tanto tempo a disposizione, nacque una delle ricette più straordinarie della cucina romana.
A Roma li chiamavano “magnacode”, e non era un’offesa: era un segno di riconoscimento, una medaglia al valore del gusto. Da questi gesti semplici, fatti di mani grosse e pentoloni sul fuoco, la coda è passata dalle cucine popolari alle osterie, poi ai ristoranti, fino a diventare un simbolo cittadino della Capitale.
La ricetta: tempo, sedano e cuore
Si parte con la coda tagliata “a rocchi”, piccoli nodi di carne e osso che vanno scottati e rosolati in un fondo ricco: olio, cipolla, carota, aglio, prezzemolo, e soprattutto lui, il grande protagonista nascosto della ricetta: il sedano.
Non un po’, ma tanto. In abbondanza. Perché è il sedano a bilanciare i grassi, a dare profumo, a portare freschezza e croccantezza.
Dopo la rosolatura, si sfuma con vino bianco, poi si aggiunge pomodoro e brodo.
Da qui in poi, comincia la parte vera della ricetta: il tempo. La coda deve sobbollire piano, anche tre o quattro ore, finché la carne si stacca dall’osso quasi da sola.
Il tocco magico? Dolcezza e profondità
Quando pensi che sia finita, arriva la magia. Qualcuno ci mette cacao amaro, altri uvetta e pinoli, c’è chi aggiunge perfino un’idea di cannella. Ogni famiglia ha il suo segreto, ma il risultato è sempre quello: una profondità di gusto che pochi piatti sanno regalare.
Il dolce e l’amaro si intrecciano, il sugo diventa quasi una confettura salata. E ogni forchettata racconta un pezzo di Roma che non ha bisogno di alzare la voce per farsi ricordare.
La nostra coda, qui da Velavevodetto
Da Velavevodetto, la coda alla vaccinara è un’istituzione. La trattiamo con rispetto, come si faceva una volta. La cuociamo lentamente, la profumiamo con ciò che serve e la serviamo così come va mangiata: calda, intensa, piena.
A volte la accompagniamo con del pane casereccio, altre con un piatto di rigatoni a parte. Perché se c’è il sugo buono, la scarpetta è obbligatoria.
Da bere? Solo rosso, serio
Un piatto così chiede un vino che gli tenga testa. Un rosso strutturato, un Montepulciano o un Cesanese, che non abbia paura del guanciale, del sedano, del cacao. Deve essere vino vero, selezionato, come il piatto che accompagna il pasto.
La coda chiama un vino deciso. Serve struttura, corpo, tannino.
Un bel Cesanese, un Montepulciano, anche un Syrah se vuoi uscire dal Lazio. Basta che non sia timido: la coda non lo perdonerebbe.
La coda alla vaccinara è Roma
Questo piatto è Roma. È Testaccio. È il rumore delle cucine al mattatoio. È la forchetta che affonda nella carne che si stacca dall’osso. È il quinto quarto che diventa primo.
È la prova che con tempo, cuore e sapienza, anche la parte “povera” diventa un capolavoro assoluto. Vieni a provarla allora!